L’esercito Cartaginese Regolare

Su quella parte dell'esercito cartaginese composta da truppe propriamente puniche, quindi non mercenarie, l'argomento è molto complesso.

Anche se Cartagine ha sempre fatto affidamento sui mercenari, Punici, Libofenici e Libici hanno giocato sempre un ruolo importante nella struttura militare dell'esercito.

Se nel periodo arcaico i Libici sono considerati mercenari alla stregua di altri reparti etnici, come i Celti e gli Iberici, con l'espansione di Cartagine nell'entroterra africano questi divengono gradualmente una parte della società cartaginese, e il termine "Libofenicio" stesso prende un significato tra i più variegati, destinato a definire più che altro una classe sociale, quella dei Meteci, che potevano essere Punici di colonie minori come Lpqī (Leptis Magna), figli di coppie miste Libiche e Fenice, Libici completamente influenzati dalla cultura cartaginese o individui di origine greca, etrusca, lucana, bruzia, elima, sarda o iberica inseriti ed integrati culturalmente e giuridicamente nel milieu cartaginese.

Alla battaglia del Crimisso (341 a.C.)  sappiamo che le forze puniche erano composte, oltre che da varie unità mercenarie, da un reparto di

"diecimila opliti con scudi bianchi, che per lo splendore delle loro armi e il modo misurato e disciplinato con cui avanzavano, vennero identificati come Cartaginesi"
– Plutarco, Vite parallele, Timoleonte, 27

Scrivendo della stessa battaglia, Diodoro nomina una particolare unità di 2500 uomini, tutti provenienti da famiglie nobili cartaginesi, che formavano un "Battaglione Sacro" [X, 20, 6 e XVI, 80, 4], probabilmente ispirato all’omonimo reparto d’elite tebano.

Più o meno un secolo dopo, la situazione non sembra molto differente: anche se Cartagine mostra la necessità di affidarsi a Santippo in qualità di consigliere militare, sembra che il condottiero mercenario spartano, pur ponendo le basi per una migliore struttura tattica e organizzativa dell’esercito punico, non sia andato a modificarne sostanzialmente l'approccio allo scontro: nella battaglia di Tunisi (255 a.C.), le unità composte da leve cartaginesi vengono schierate accorpate in una formazione falangitica posta al centro dello schieramento e distinta dai reparti dei mercenari distribuiti sull’ala destra [Polibio, Storie, I, 33].

Per quanto non si possa essere sicuri della natura specifica della falange punica nella battaglia di Tunisi, appare difficile che possa essersi discostata dal precedente modello oplitico.  Lo stesso Santippo, un riorganizzatore più che un vero e proprio riformatore, proveniva da un contesto militare, quello spartano, che avrebbe visto l’impiego di truppe armate alla macedone solo dopo il 227 a.C. con la riforma di Cleomene.

Tuttavia, anche già al tempo della Prima Guerra Punica, probabilmente i soldati cartaginesi non erano unicamente armati come degli opliti: nella battaglia di Adys (256 a.C.) la fanteria punica venne schierata su un  terreno scosceso e altamente accidentato dove, secondo Polibio, altri corpi come gli elefanti e la cavalleria sarebbero stati impossibilitati ad operare, sottintendendo quindi un’alta mobilità e manovrabilità della fanteria cartaginese [Pol. I, 30, 6-7]. Ciò probabilmente implica che già in quel periodo, almeno alcuni reparti di Thyreophoroi dovevano essere già in uso.

In ogni caso, la prima vera e propria riforma dell’esercito cartaginese probabilmente venne a verificarsi durante l'occupazione di Amilcare della Spagna. Le aree della Penisola Iberica interessate dall’influenza punica iniziano a presentare, dalla seconda metà del III secolo a.C. in poi, un numero crescente di scudi di tipo thyreos, che appaiono tanto nelle evidenze archeologiche quanto in quelle iconografiche degli Iberi e dei Turdetani, andando a superare persino la tipologia di scudo locale, la caetra.

Appare probabile che, nella necessità di consentire ai suoi soldati di confrontarsi in maniera efficace ed efficiente con i guerrieri iberici, portati alla guerriglia, all’imboscata e al colpo di mano, Amilcare abbia riformato il proprio esercito all’insegna della versatilità e della manovrabilità, in maniera speculare e parallela a ciò che fecero i Romani durante le Guerre Sannitiche per rispondere alle medesime necessità. 

Di fatto, al momento di definire i gruppi tattici dei veterani africani in seno all’esercito barcide, sia Appiano che Polibio utilizzeranno la parola speirai, lo stesso termine che viene utilizzato in Greco per definire i manipoli romani o in generale una formazione maneggevole, in opposizione a syntagma, che viene utilizzato per definire i gruppi tattici all’interno di una falange.

Inoltre, Polibio afferma che il re gallico Braneo, nel prestare aiuto agli uomini di Annibale durante la spedizione verso le Alpi, "sostituì tutte le loro armi vecchie o usurate con armi nuove" [Pol III, 49, 11], e tanto Polibio quanto Livio [Pol 3.87.3, 114.1, Liv 22.46.4] sostengono che i Libici e i Licofenici dell’esercito di Annibale, durante la campagna d'Italia si equipaggiarono con le migliori armi romane sottrate ai caduti avversari a seguito delle battaglie della Trebbia e del Trasimeno, in entrambi i casi quindi indicando chiaramente che le truppe puniche erano avvezze ad utilizzare uno scudo ti tipo thyreos, con tutto ciò che ne consegue.

Proseguendo con le testimonianze riportate dagli storici, sappiamo che col principiare della Terza Guerra Punica, quando Cartagine comincia a riarmarsi, produce un arsenale di "thyreos,  xyphos (spada diritta e foliata di tipo greco), saunion (giavellotto a gorbia lunga simile al pilum romano) e longche (lancia ad uso duale)" [Appiano, Punike, 93], e nella lista delle armi che Cartagine cedette ai Romani, sono citati solo lance da getto e giavellotti. Non vi è alcun riferimento circa oplon/aspis (lo scudo rotondo e convesso degli opliti) o doru (l’asta da urto oplitica), e, ovviamente  non si parla assolutamente di sarissa (la lunga picca dei falangiti macedoni).

L'equivoco ricorrente di un esercito cartaginese con al suo interno reparti di "Falangiti Africani” armati alla macedone è stato generato da una traduzione errata del Loeb, adottata poi anche da Connely, del termine "Lonchophoroi", presente in Polibio, che venne frainteso come un sinonimo di "sarissophoroi" e quindi tradotto come "picchieri/falangiti ellenistici".

La "longche" utilizzata dai Libici e dai Libfenici non era affatto un sarissa, ma una lancia relativamente corta, a cuspide larga, utilizzata sia come arma da corpo a corpo che da getto [Strabone, XVII.3.7].

Inoltre, nello specifico, i Lonchophoroi non erano la fanteria di linea dei veterani africani, ma una fanteria leggera di schermagliatori, spesso schierati su terreni accidentati in combinazione coi frombolieri delle Baleari o la cavaleria numidica,  che giocarono un ruolo cruciale durante l’imboscata al Trasimeno:

"Quando la cavalleria romana si ritirò e lasciò i fianchi della fanteria esposti, i Lonchophoroi cartaginesi assieme ai Numidi si lanciarono attraverso le proprie truppe che erano di fronte a loro,  abbattendosi su entrambi i  fianchi dei Romani, colpendoli gravemente e impedendo loro di affrontare il nemico che avevano di fronte."
– Polibio III, 73, 7

Il fatto che Polibio usi il termine "Lonchophoroi" (lett. "Portatori di Lancia") invece di "Akontistai" o "Psiloi", normalmente utilizzati in Greco per definire gli schermagliatori, è probabilmente dovuto alla grande versatilità della fanteria leggera di Annibale, probabilmente un misto di caetrati celtiberi e lusitani [Livio, Ab Urbe condita, XXI, 57] e Libici (il guerriero raffigurato sul rilievo di Smirat in Tunisia, con scudo rotondo e un fascio di lance  e giavellotti), muniti non solo di armi da getto come la falarica/saunion  e ilu soliferrem/gaesum , ma anche con una lancia che poteva, alla bisogna, essere utilizzato tanto come arma da lancio quanto come arma da corpo a corpo (cfr. J. Lazenby, "Hannibal’s War"), la "longchai corta a cuspide larga" che Strabone attribuisce ad alcune truppe leggere libiche [XVII.3.7].