Nel lungo percorso evolutivo dell’arte della guerra presso i Galli, il III secolo è stato senza dubbio un punto di arrivo.
Sebbene lungi dall’essere definitivo, lo sviluppo marziale gallico vede l’assestarsi di alcuni stilemi che diventano canonici.
Il III secolo segna lo spartiacque tra la banda armata votata alla scorribanda e alla razzia, il canone dei secoli precedenti, e l’esercito di popolo volto all’azione militare in piena regola, prodotto delle necessità dettate dal confronto con realtà complesse ed articolate come il mondo greco ed italico.
“La domanda di personale militare ha raggiunto alla fine del IV secolo un’entità tale che la sola aristocrazia militare, già provata da un secolo di mercenariato intensivo, non è più in grado di sostenere, e le battaglie del III secolo che vedono i Celti scontrarsi con i Romani e con i Greci coinvolgono decine di migliaia di uomini per schieramento, numeri che evidentemente non possono certo essere coperti solo da un’èlite.”[1]
Se il riscontro archeologico dimostra incontrovertibilmente una maggiore diffusione della spada, strumento del guerriero per antonomasia che viene a presentarsi spesso in tipologie meno raffinate del secolo precedente, sovente con la lama a sezione lenticolare e priva di costolatura, questa, accompagnata sempre dal fodero e dal cinto sospensorio metallico, rimane un’arma comunque costosa, e il cui utilizzo sottintendeva un addestramento mirato che per tempo e necessità contingenti non doveva essere alla portata della stragrande maggioranza dei combattenti gallici.
Sarà quindi la lancia a diventare l’arma di uso più comune, partendo dal modello della dory greca che verrà perfezionato, per sublimarne le capacità di penetrazione e di urto, in quella che Diodoro Siculo chiamerà lankia[2], mentre lo scudo verrà progressivamente irrobustito nella sua parte centrale, per far fronte ai forti impatti frontali che si accompagnano all’uso di un’asta da urto.
L’approccio allo scontro della parte più consistente degli eserciti gallici verterà quindi su modelli poveri di manovra, contraddistinti da ripetuti urti frontali e successive compressioni, volte a scardinare le formazioni avversarie.
Se questo modello finirà per divenire canonico e perfezionarsi ulteriormente nei due secoli successivi, è interessante notare come non trovi assolutamente alcun riscontro presso le forze galliche impiegate da Annibale durante la Seconda Guerra Punica.
Un approccio così monolitico e poco versatile non poteva evidentemente trovare posto all’interno del ricco ed articolato sistema tattico che era stato inaugurato da Amilcare e sfruttato oltre ogni immaginazione da suo figlio Annibale.
Se possiamo identificare un elemento costante e ricorrente nello sfaccettato e completo approccio allo scontro dei Barcidi, questo è senza ombra di dubbio l’alta manovrabilità delle schiere, l’esatto opposto quindi di una formazione ultraserrata di ispirazione falangitica.
A Canne, in particolare, le truppe galliche in seno all’esercito cartaginese verranno disposte suddivise in speirai, similmente a quelle spagnole e libiche, quindi irreggimentate in gruppi tattici mobili e versatili, analoghi ai manipoli romani.
La panoplia stessa dei Galli è descritta in maniera minuziosa, e se tanto Polibio quanto Livio ricordano lo scudo oblungo e la spada da fendente, non vi è alcun accenno alla lankia menzionata da Diodoro e che trova tanto riscontro nel dato archeologico.
L’armamento dei Galli che combattono sotto le insegne di Annibale appare quindi di qualità superiore a quello del comune fantaccino gallico, così come il loro ruolo sul campo di battaglia non pare dissimile a quello di altre realtà presenti in seno all’esercito Annibalico.
A Canne, di nuovo, le speirai dei Galli verranno schierate intervallate da quelle degli scutari Ispanici[3], e la loro funzione durante lo scontro sarà similmente delicata, e contraddistinta da una necessità cruciale tanto di capacità di manovra quanto di ferrea disciplina, una caratteristica quest’ultima della quale i guerrieri gallici erano comunemente ritenuti poveri, e a ragione.
Molto si è scritto sulla disposizione dei Celti a Canne, e se la loro posizione a formare il cuneo al centro dello schieramento cartaginese non può non far riflettere su una possibile volontà di Annibale di risparmiare alle sue schiere più fidate, quelle dei Libofenici, l’impatto più devastante, e conseguentemente le perdite più pesanti, ciò non può bastare a motivare una decisione relativa ad un settore così cruciale dello schieramento, nel quale, è bene ricordarlo, lo stesso Annibale assieme al fratello Magone avrebbero preso posizione[4].
Il compito delle speirai dei Galli e degli Ispanici era quello di sostenere l’impatto dello schieramento avversario, e poi di arretrare progressivamente sino ad invertire la propria struttura da cuneo a sacco, nel quale avviluppare e contenere i Romani mentre i Libici, fino ad allora inattivi, avrebbero sferrato il loro attacco devastante ai fianchi.
È evidente che un ruolo del genere, da cui dipendeva tutta l’efficacia della strategia pianificata, non poteva essere consegnato a truppe inaffidabili, e non convince il parere di alcuni storici, secondo il quale Annibale avrebbe posto i Galli al centro proprio perché conscio della loro incostanza, e del fatto che prima o poi avrebbero ceduto il passo all’urto dei legionari.
Al di la del fatto che il cuneo centrale era formato tanto da Galli quanto da Ispanici, appare evidente che Annibale non potesse certo riporre in una supposta instabilità gallica, che poteva come non poteva manifestarsi in qualunque momento, la chiave di volta della sua strategia, così come non poteva correre il rischio che un ripiegamento cadenzato si tramutasse da un momento all’altro in una fuga disordinata, che avrebbe messo a repentaglio non solo l’intero andamento della battaglia, ma la sua stessa vita.
Se Livio riferisce che ad un dato momento la formazione dei Galli e degli Ispanici, sotto la pressione romana, si sfalderà al centro in una fuga scomposta[5], Polibio, senza dubbio più affidabile, riporta quello che pare un ripiegamento tattico ragionato, con l’assottigliarsi del centro e il rafforzarsi dei lati della formazione gallica e ispanica, che lentamente da convessa diviene concava, avviluppando parzialmente il nemico.[6]
I Galli a Canne dunque si comportano in maniera antitetica allo stereotipo del Celta tramandato dai Classici, instabile, irrequieto e inaffidabile, così come appaiono discostarsi, per armamento e capacità tattiche, dal guerriero gallico più comune.
Se la nudità dei combattenti gallici riportata da Polibio[7] potrebbe indicare l’appartenenza a delle specifiche fratrìe militari del mondo celtico[8], e quindi a delle truppe scelte, non potremo mai essere certi che la descrizione affondi in un dato reale o piuttosto in un topos, quello del Celta nudo e selvaggio, che era divenuto canone presso i Classici, e in ogni caso ipotizzare che l’intero apporto gallico alle forze annibaliche fosse fornito da compagnie di mercenari professionisti appare poco credibile.
I Galli che militavano nell’esercito del Barcide appartenevano principalmente alle nazioni cisalpine, che mal sopportavano il dominio romano.
Gli Insubri della Lombardia e i Boii dell’Emilia avevano intessuto alleanze segrete con Annibale ancor prima del suo arrivo in Italia[9], e ne avevano addirittura favorito il passaggio delle Alpi[10], e diverse altre realtà galliche della Valle del Po erano accorse ad ingrossare le fila dell’esercito cartaginese a seguito dei successi del Ticino e della Trebbia[11].
Secondo Polibio le forze di fanteria di Annibale al suo arrivo in Italia, nel 218 a.C., ammontavano a dodicimila Libici e ottomila Ispanici[12], mentre la fanteria schierata due anni dopo a Canne contava grossomodo quarantamila effettivi[13].
Considerando le perdite subite al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, e la variabile delle truppe leggere di frombolieri e lonchophoroi, che non possiamo chiaramente identificare se presenti o meno nei computi effettuati, in ogni caso la fanteria gallica presente a Canne doveva aggirarsi tra i ventimila e i sedicimila effettivi, una cifra che è impensabile immaginare ricoperta dai soli guerrieri professionisti delle realtà galliche della Cisalpina.
Va ricordato che dalle prime vittorie nella Pianura Padana, Annibale aveva avuto due anni per formare le reclute fornitegli dalle nazioni galliche cisalpine, e l’uso radicato del thyreos[14] presso i Galli deve aver contribuito a consentire un addestramento volto a modelli tattici agili e versatili, trasformando ciò che nel contesto militare gallico era già il particolare, ovvero il nobile e il mercenario professionista armato di spada ed arma da getto, nel generale.
I Barcidi d’altra parte avevano già dato prova di padroneggiare la ristrutturazione tanto delle tattiche quanto della panoplia dei contingenti etnici che andavano a comporre i loro eserciti, come ampiamente dimostrato dalla sistematizzazione del thyreos presso le loro forze celtibere[15], impiegate sul campo come superlativa fanteria di linea[16], ma al contrario provenienti da un contesto militare solitamente avvezzo all’uso della caetra[17] e contraddistinto della pratica intensiva dell’imboscata e della schermaglia.
L’affermarsi nel panorama gallico di III secolo di modelli di spada privi di nervatura centrale e a sezione lenticolare, più economici, semplici e veloci da realizzare delle lame costolate a sezione romboidale dei secoli precedenti, potrebbe aver favorito ulteriormente la scelta del Barcide, o forse, persino, esserne in parte un prodotto, per quanto forse processo già avviato dai grandi movimenti militari delle popolazioni galliche cisalpine che si erano concretizzati con la spedizione celtica disastrosamente conclusasi presso Talamone nel 225 a.C.
L’unico dato certo è che i guerrieri gallici sotto l’egida di Annibale risultarono di gran lunga più efficienti e versatili di quelli che avevano combattuto e, dopo la Seconda Guerra Punica, combatteranno in seno alle armate propriamente celtiche, ed una differenza lampante è distinguibile già tra i Galli di Annibale a Canne, tanto validi da occupare assieme agli Ispanici un punto cruciale dello schieramento, e quelli al seguito di Asdrubale, che furono in buona parte, a causa della loro scarsa disciplina, addestramento ed organizzazione, responsabili della tragica sconfitta del Metauro[18].
[1] G. Canestrelli, I Celti e l’arte della Guerra dal V al I secolo a.C., Il Cerchio, 2010, p. 58
[2] Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, V, 30
[3] Polibio, Storie, III, 114
[4] Tito Livio, Ab Urbe condita, XXII, 46
[5] Tito Livio, Ab Urbe condita, XXII, 47, 6
[6] Polibio, Storie, III, 115
[7] Polibio, Storie, III, 114
[8] Polibio, Storie, II, 29
[9] Polibio, Storie, III, 34 e 44
[10] Tito Livio, Ab Urbe condita, XXI, 29
[11] Polibio, Storie, III, 69
[12] Polibio, Storie, III, 56
[13] Polibio, Storie, III, 114 e Tito Livio, Ab Urbe condita, XXII, 46
[14] Scudo oblungo a manopola, dall’altezza solitamente variabile tra gli 80 e i 120 centimetri
[15] Tito Livio, Ab Urbe condita, XXVIII, 2
[16] Tito Livio, Ab Urbe condita, XXVII,2 e XXX, 30
[17] Scudo rotondo a manopola, dal diametro variabile tra i 90 e i 30 centimetri
[18] Polibio, Storie, XI, 2